Occorre iscrivere urgentemente le mamme nella lista dei beni “patrimonio dell’umanità” dell’Unesco in modo da ottenere la tutela giuridica per la loro sopravvivenza.
La figura della madre è in serio pericolo di estinzione, bersaglio mobile, da almeno un secolo, di organi potentissimi che congiurano contro di lei, con il loro piano di sterilità programmatica, con le loro politiche maltusiane di anti-natalità, controllo demografico, pianificazione familiare, genderismo spinto, diritti finto-progressisti, ecc.
Dal Population Council a Planned Parenthood, dalla Marie Stopes International al Club di Roma, dal National Security Study Memorandum 200 (ad opera del Segretario di Stato Henry Kissinger) all’ Onu, è tutto un insieme di filosofie e azioni su come frenare la crescita demografica ritardando l’età del matrimonio, incrementando l’omosessualità, ecc.
Nietzesche identificava il nichilismo con il deserto (“guai a portare il deserto dentro di sè”), il luogo privo di vita per eccellenza dove nulla cresce, emblema dell’aridità dei nostri tempi. Il deserto avanza ed è una guerra messa in campo contro la vita, contro la creatività, contro i bambini, contro la famiglia, contro la comunità, contro la tradizione. In una parola, contro la madre, colei che, di generazione in generazione, trasmette e protegge l’essenza della vita.
Hanno osato toccare il codice della vita, la linea germinale umana, l’albero della vita. Hanno osato toccare la madre. Con i loro esperimenti di manipolazione del Dna, con i loro editing genetici, con i loro design baby, l’agnello nel sacco di plastica, le gemelle cinesi capostipi di una nuova stirpe post-umana medicalmente modificata.
E ora hanno osato realizzare l’utero artificiale, il grembo tecnologico da cui nascerà la nuova generazione di bambini Crisp venuti dal freddo della fecondazione in vitro, nell’inverno demografico perenne. Bambini strappati alla carne calda del grembo materno, culla dell’umanità, taglio definitivo del cordone ombelicale rispetto a tutto ciò che è umano. Atto diabolico nella sua essenza, poiché “dia-ballein” significa etimologicamente separare contrapposto al simbolico, “syn-ballein”, che vuol dire unire: una madre e un figlio in rapporto simbiotico.
I nuovi sacerdoti del transumanesimo eugenetista, in perenne competizione con la natura, invasati dal delirio di onnipotenza scientista, ora vogliono espropriare la gravidanza dal corpo delle donne, per avere il dominio assoluto sulla vita.
Perché il corpo della donna è l’opposto del corpo anatomico, sezionato, neutro concepito dalla scienza. Corpo annichilito dei suoi millenari spessori antropologici, dei suoi insondabili misteri, mentre il corpo della donna vive ancora in un rapporto diretto, selvaggio e simbolico con la natura.
I saperi-poteri che nell’età post-moderna governano addomesticando i corpi, tentano di imbrigliare quel corpo così ribelle alla domesticazione della tecnica, così complesso, così profondamente radicato alla natura, così sfuggente con i suoi mutamenti, le sue periodicità in sintonia con i ritmi lunari del tempo ciclico. E, soprattutto, corpo capace di compiere l’atto supremo: dare la vita.
Le prime opere d’arte dell’umanità sono le maternità primitive (35.000 a.C.), divinità primordiali che simboleggiano la generatività. La più antica, la “Venere di Fels”, risale al 35.000 a.C. e rappresenta una figura femminile stilizzata con le mani appoggiate sul ventre, figura cultuale riverita in tutto il Mediterraneo per garantire la fertilità della specie umana.
Alle origini del pensiero umano, i miti e i riti inscrivono il femminile nella sacralità della rigenerazione, della continua trasformazione e del rinnovamento, fonte divina che dà e sostiene la vita. La ritmicità che ne scandisce la vita segna il suo legame profondo con la natura, con il cosmo, con un universo sempre gravido di vita che fa della fecondità la sua legge essenziale. Ovunque la fecondità è stata ritualizzata e la donna rappresentata come mediatrice con l’aldilà, con il trascendente, con il mondo dei morti.
La conservazione del fuoco, la preparazione dei cibi, la filatura e la tessitura, appartengono al dominio originario del femminile. In principio, queste non sono prestazioni tecniche ma rituali carichi di significati simbolici. L’origine della tecnica non solo non ha nulla di tecnico, come ci ha insegnato Heiddeger, ma è cultuale, come ha dimostrato Giorgio Colli.
Le Moire greche, le Parche romane, erano tutte filatrici perché il fuso con il suo moto circolare simboleggia il roteare degli astri, il tempo ciclico del cosmo, il destino degli uomini. Sono divinità che simboleggiano sia la vita sia la morte perchè la possibilità di procreazione che contraddistingue il femminile è in grado di stabilire la vita e la morte del genere umano.
In quanto potenzialità che non ubbidisce ad altre regole se non a quelle del corpo stesso, al di là di qualunque valenza esterna, il materno come sapienza archetipale della natura si contrappone alla cultura come conoscenza artificiale.
Non è il sapere che deriva dal pensiero logico-astratto (tipicamente connotato dal maschile), ma quello immediato, innato, che non ha bisogno di passare per la conoscenza della cultura per far parte del sapere umano. Non è il il pensiero illuministico che – alla luce della ragione, seguendo il sole sempre uguale a sé stesso – analizza, distingue e separa, ma il pensiero intuitivo che sintetizza, unisce, abbraccia. e non lascia niente fuori dal suo raggio lunare rivelando l’unità insospettata dell’universo.
“La coscienza femminile è meno nitida e chiara di quella maschile ma capace di rilevare in un campo più vasto le cose che sono ancora umbratili. Le doti di veggenza e le capacità di intuizione della donna sono sempre state riconosciute. La sua vista, non concentrata su un punto focale, le dà la consapevolezza di ciò che è oscuro e il potere di vedere ciò che è nascosto con occhio più acuto“, ha scritto Jung.
È la saggezza di Atena, simbolizzata dalla civetta che vede anche di notte, la dea che non genera figli ma le istituzioni che regolano la polis, (la città-stato greca), ossia la “molteplicità”. È sotto il suo sguardo che più di 2500 anni fa è nata ad Atene la democrazia, la forma politica che accoglie e abbraccia quell’elemento imponderabile dell’esistenza che è la libertà. La democrazia non è altro che la fatica di pensare la convivenza di esseri liberi, ecco perché la tecnocrazia la detesta imponendo il suo ordine algido, immobile, sterile. Ecco perché odia i bambini e la maternità. Non a caso, anche le arti sono poste sotto la protezione di Atena in quanto archetipo sapienziale che serba in grembo la potenza generativa, creando il terreno fertile che ispira lo sviluppo di ogni processo creativo.
La madre è l’amore incondizionato che non ha riscontro altrove a livello relazionale. È Gea che salva Zeus dal padre Cronos (dal greco tempo) che divora i propri figli e, così facendo, istituisce la legge del tempo e il principio della discendenza: i figli succedono ai padri nello scorrere delle generazioni. È Demetra – dea delle messi, dispensatrice di nutrimento – che piange la scomparsa della figlia Persefone fino a ottenerne il ritorno dagli Inferi una volta all’anno, portando la primavera nel mondo, la rinascita della natura. È Venere che rimprovera il figlio Eros con una sonora ciabattata come si vede in un vaso del 360 a.C., perché la fatica delle mamme, alla fine, è sempre la stessa e risponde alla responsabilità immensa di educare un altro essere.
A tal proposito, il genetista Richard Dawkins si chiede quale sia la differenza morale, oggi, tra il generare un bambino con abilità musicali, ad esempio, e il costringerlo a prendere lezioni di violino. Insomma, artificiale è meglio, si può crearli in laboratorio con attitudine direttamente incorporata nel Dna. Per i nuovi oracoli della scienza, la fabbrica degli umani deve funzionare a pieno regime e sbaragliare la concorrenza della natura per arrivare a modellare la posterità nelle forme che vogliono. “Per vera educazione intendo un’educazione che non ammetta pressapochismi. La vera educazione infallibilmente trasforma chi la subisce in ciò che essa si prefigge, senza che il soggetto in questione o i suoi genitori possano farci nulla. Naturalmente si tratterà, all’inizio, di un influsso soprattutto psicologico. Ma alla fine arriveremo al condizionamento biochimico e alla diretta manipolazione del cervello”, scriveva Clive Staples Lewis nel lontano 1957.
Nella storia dell’uomo, l’evento della nascita è sempre stato vissuto come fatto sociale significativo, ritualizzato e sacralizzato, e dunque gestito dalla collettività e mai considerato come qualcosa di privato né tantomeno di medicalizzato come lo è oggi.
In Africa, la gravidanza, il travaglio e la nascita di un bambino sono accompagnati da riti, canti e preghiere; il cordone ombelicale e la placenta vengono seppelliti vicino alla casa. In Africa Subsariana le donne partoriscono da accovacciate perché la tradizione vuole che la terra sia la prima cosa che il piccolo deve toccare appena venuto al mondo. Per i Macua ogni nuova nascita rende più forte tutta la comunità, per questo la sterilità è vista come una disgrazia, un castigo o una maledizione. Le nuove nascite rafforzano il legame tra passato e futuro e sono il segnale che gli antenati continuano a fungere da intermediari. Il neonato, infatti, riceve il nome di un defunto, ne eredita alcune caratteristiche e per tutta la vita intratterrà con lui un legame speciale.
In tutte le culture arcaiche e ancora oggi in quelle extra-occidentali, la nascita è considerata un evento-limite interdetto all’intervento umano e posto sotto la tutela del divino. Si tratta, infatti, di uno dei due regni cosiddetti “indisponibili”, insieme alla morte. È una visione in cui la nascita è strettamente legata alla morte tanto che i loro simboli spesso si sovrappongono e si confondono. I cosiddetti popoli primitivi non concepiscono la nostra cesura tra vita e morte, nè conoscono la nostra angoscia che porta ad enfatizzare la prima e ad esorcizzare e rifuggire la seconda.
Non si moriva soli in ospedale e non si nasceva in ospedale, isolati in una dimensione prettamente privata. Attorno alla nascita, come attorno alla morte, si tesseva una rete di rituali, pratiche, gesti a cui partecipava tutta la comunità. Sulla scena della nascita era presente l’universo collettivo del villaggio, rappresentato da una o più donne che assistevano direttamente la partoriente.
Da noi l’evento della nascita si è privatizzato, relegato alla storia individuale di ciascuno, come tutti gli altri eventi della vita. L’ospedalizzazione della gestazione ha portato a un ulteriore allontanamento della madre e del nascituro dalla scena sociale. Lo spazio artificiale dell’ospedale denaturalizza la nascita, le sottrae il suo luogo naturale sociale e, inevitabilmente, la patologizza. Tant’è vero che l’Italia ha raggiunto il 36% di tagli cesarei, mentre la sua reale utilità non dovrebbe superare il 7%.
Da intervento prezioso in caso di complicazioni ha finito per essere applicato indistintamente. La medicalizzazione dei corpi è una tendenza della nostra società e risponde al bisogno frainteso di sicurezza, di controllo degli eventi, difende dalle emozioni forti, dall’istintualità, considerata “primitiva”. Permette di standardizzare l’assistenza, di codificarla in protocolli eliminando le variabili, schematizzando la storia personale, fino all’organizzazione industriale delle nascite in ospedali sempre più grandi e spersonalizzati.
Le conseguenze ci sono e sono allarmanti, a cominciare dalla scomparsa della “variabilità” e della “capacità reattiva” nella riproduzione che sono importanti fattori di protezione perchè offrono risorse sempre nuove per potersi adattare a situazioni nuove. La loro scomparsa significa l’aumento esponenziale della vulnerabilità della specie umana a cui si risponderà con un maggior ricorso alla riproduzione artificiale.
Nella post-modernità, si viene al mondo circondati da estranei (ostetriche, ginecologi, professionisti) e la nascita è sempre più affidata alle mani dei tecnici, che saranno sempre più le mani artificiali di una tecnologia anonima, pervasiva e invasiva. Le inquietanti dimensioni della fecondazione artificiale entrano ormai nello spazio bianco dell’origine che per millenni era stato al sicuro dall’intrusione del prometeismo umano.
Dietro questa tecnologia scatenata che viaggia a velocità inimmaginabili arranca un’etica che non sa più porre confini ritrovando il proprio ruolo di guida, magari recuperando anche quella saggezza interrogativa e dubbiosa che era tipica delle culture antiche.
“Seguire il ritmo della vita femminile significa seguire il ritmo della vita stessa, accettando gli imperativi fisiologici piuttosto che quelli di una civiltà artificiosa, anche se perfetta. Quando l’umanità è stata affascinata, all’udire il battito del proprio cuore, la donna, con la sua complicata biologia, è diventata modello per l’artista, per il mistico e per il santo. Quando invece il genere umano si volge a quello che può essere fatto, alterato, costruito, inventato nel mondo esterno, tutte le proprietà naturali dell’uomo, degli animali, dei minerali diventano ostacoli da superare e modificare piuttosto che indirizzi da seguire”, ha scritto Margaret Mead nel 1949.
Ecco, oggi che si parla così tanto di denatalità, forse per tornare a ripopolarci basterebbe tornare ad ascoltare il cuore.